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Se il Festival dei giovani infastidisce noi boomer

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Se il Festival dei giovani infastidisce noi boomer

La prima, più ovvia e frequente domanda è: il Festival di Sanremo è una fotografia reale della musica italiana dell’anno 2024? Come sempre, in questo mondo contemporaneo in cui certezze non ce ne sono e “mah” invece parecchi, la risposta è “sì, forse”. Ma anche “no, che scherzi? “, oppure “potrebbe, se solo. . .”. Dipende.

Il dato di fatto è che cinque anni di direzione artistica di Amadeus hanno fatto sì che Sanremo abbia subito una mutazione genetica profonda, che solo il futuro dirà se definitiva o meno. Venivamo da due anni di Claudio Baglioni, il quale aveva azzerato la musica straniera (tradizionalmente presente fin dagli anni 60, in gara o meno) e ne aveva fatto una vetrina di musica italiana (oltreché della propria). Diciamo abito dal taglio cantautorale, come il padrone di casa. Un’operazione affettuosamente definibile “da boomer”.

Non che Amadeus abbia dimenticato il passato, mica è pazzo, l’audience è – scusate la vecchia metafora – come il maiale, non si butta niente. Si son viste cose che voi umani (valga per tutte il trio Morandi-Ranieri-Al Bano, Gigliola Cinquetti, persino i Jalisse), sono passati i totem e anche i totemini, è transitato di tutto.

Non in gara, però. Le sopracciglia inarcate all’annuncio del cast di quest’anno, la corsa a chiedere ai figli “scusa, ma chi è Tedua? E Big Mama da dove esce? I La Sad sono davvero –esistono ancora? – un gruppo punk? ” (no, erano solo una caricatura da musical) lo ricordo bene. Una reazione da boomer, appunto. In gara (e non da quest’anno) c’era una musica italiana diversa dal passato, come se la categoria Giovani (o Promesse) si fosse sostituita alla obsoleta categoria dei “Campioni” di baudesca memoria.

A coloro che ascoltano la radio, i podcast, Tik Tok e Instagram, che non sanno come si mette un cd nel lettore e vivono solo di streaming (ognuno ne ha uno in famiglia, nella mia il 18enne Marco ascolta solo rap e trap e non ha la minima idea di quello che ascolto io – e viceversa, dalle stanze escono suoni solo raramente simili) il cast e la tendenza era chiarissima. Ho anche il sospetto che il vero direttore ombra del Festival sia l’inquadratissimo Josè Sebastiani, il figlio di Ama-deus-ex-machina, l’età è quella.

Perché proprio lì sta la questione: dopo cinque serate viste con meticolosa curiosità (per me Sanremo è un breve – bè, breve, si fa per dire…– corso di aggiornamento annuale), la sensazione è quella che il cast di Sanremo ’24 sia una sorta di mondo parallelo nel quale hanno residenza le (piccole o grandi) star del mondo ggiovane di adesso, quello in cui sono tutti “bro”: musica leggera leggerissima, carina da canticchiare e ballare, perfetta per playlist o playlist dal vivo negli spettacoli televisivi estivi simil-Festivalbar, teenager in delirio con cellulare puntato, con numeri esagerati su Spotify (avrete notato che nelle presentazioni non si parla più di dischi venduti ma di streaming, giusto? ). Un mondo parallelo sconosciuto a quelli che vivono in un altro universo parallelo, nel quale si ascoltano le cose di gioventù o al massimo i loro eredi.

Non è una sorpresa, il pianeta vive su infiniti mondi paralleli che solo la curiosità o il caso – o un senso artistico più evoluto– fanno incontrare. Per esempio, quando Mahmood chiama i Tenores di Bitti a cantare con lui un capolavoro di Lucio Dalla, o Angelina Mango canta un brano commovente già di per sé del padre, accompagnata dal prestigioso quartetto d’archi della Orchestra di Roma. Emozioni vere (e, guarda caso, non digitali ma vocali).

La verità è che ognuno ascolta quello che conosce, e se Geolier è il rapper più ascoltato dell’anno in Italia (o Travis Scott in USA), il dato è del tutto sconosciuto a quelli di un altro giro, in cui magari il disco dell’anno era – chessò – Peter Gabriel. Chiaro che poi si creano fazioni, la contrapposizione fra “questo chi è?” e “ lei non sa chi sono io” è conseguenza inevitabile. Ci sono artisti in comune ai due mondi – per dire, Lana del Rey, Billie Eilish o il primo Kanye West– e sono ventenni (di spessore, anche nei testi) molto evoluti da un punto di vista sonoro.

Ecco, questa è la cosa interessante della musica di Sanremo’24: le produzioni. Se di accordi se ne usano pochini, se i brani sono molto orecchiabili ma fatti un po’ in serie (si parte piano, poi si decolla, poi ci si ferma e si riparte –lo fecero per primi Battiato e Alice con Il Vento Caldo dell’Estate, era il 1980), i suoni sono la vera novità. Si sente meglio sui dischi che all’Ariston (dove l’orchestra riempie e arricchisce): i giovani produttori italiani sono perfettamente al passo con quello che succede nel mondo, la tecnologia digitale ha uniformato le produzioni planetarie, ma c’è innovazione e inventiva nei beat, negli arrangiamenti, nelle sonorità. A volte riconosci più la mano del produttore rispetto alla voce del cantante.

Non è il caso di Angelina, che ha talento e una voce che spacca, ma La Cumbia della Noia è perfetta, magari con un po’ di spagnolo in più, per funzionare su tutte le piste da ballo del mondo. Perché è da lì che passa la musica di oggi. Però, se siete rimasti al liscio o alla disco non temete: basta non uscire dal proprio universo parallelo.

Una comfort zone, nella musica, c’è per tutti.

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