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Quei rischiosi malintesi sulla guerra necessari

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Quei rischiosi malintesi sulla guerra necessari

Kafka scrive: «c’è un malinteso, e per causa sua finiremo in rovina». I malintesi, ovvero la capacità di trasformare il nostro quotidiano fra-intenderci in male-intenderci, sono in agguato ovunque, ma il loro dominio preferito e più pericoloso è quello dell’ “arte politica”. Confondiamo continuamente ciò che vorremmo fosse con ciò che è; trasformiamo in realtà i nostri desideri; immaginiamo l’avversario secondo i nostri fini; ci illudiamo sulle nostre forze, sia quando ci riteniamo troppo forti che quando troppo deboli. E il disinganno giunge sempre troppo tardi, come la punizione degli dèi. Il malinteso regna sovrano oggi nel campo delle politiche internazionali.

Sembra che non si tratti più di evitare la guerra, ma di come condurla. Non più, semmai, di prepararla, se vuoi la pace, secondo il detto famoso quanto discutibile, ma soltanto di come farla, convenzionale o atomica, avendo presente un unico fine: la vittoria. Malinteso, anzitutto, è il significato di quest’ultimo termine. O altamente equivoco. Vittoriosa può essere la risoluzione di un conflitto di interessi ben definito o, invece, l’abbattimento del nemico, se questo è considerato, per sua natura, una minaccia strategica e permanente.

La guerra, nei due casi, sarà ovviamente perseguita con metodi e mezzi diversi. Nel primo caso, anche nel mezzo del conflitto, è logico proseguire l’azione politico-diplomatica, avanzare proposte, tenere aperto il tavolo del negoziato; nel secondo caso tutto ciò diventa superfluo o puramente propagandistico. La decisione sul senso da dare alla guerra, e di conseguenza alla vittoria che comunque ne costituisce il fine per ambedue le parti, dipende dalla conoscenza che si ha della situazione complessiva e in particolare della natura e delle mire del proprio nemico. E qui si manifesta la seconda serie di possibili colossali ed esiziali malintesi.

In un conflitto è facile intendere bene quali siano i punti per me non trattabili, ma altrettanto intendere male quali siano quelli del mio avversario. La tendenza naturale sarà sempre quella di ingigantire l’importanza dei miei e ridurre quella degli altri. E ciò può portare appunto alla rovina. Non trattabile sarà sempre per uno “spazio imperiale” vedersi ridotto a “luogo chiuso”, circondato. Potrà sbriciolarsi, certo, ma per cause endogene, magari anche favorite dall’azione delle potenze nemiche, ma mai arrendersi a un’azione di guerra da parte di queste ultime. Il confine che permette di distinguere tra elementi importanti di uno “spazio imperiale”, ma non vitali, e invece quelli che ne definiscono la natura essenziale, è una soglia molto sfuggente, una sottilissima linea di terra, eppure sempre esiste e sempre può essere bene-intesa. Confine mai rigido, si capisce, mai definito una volta per sempre, che si disloca nel variare della situazione e dei tempi – e tuttavia esso ogni volta si dà. Comprenderlo costituisce il cuore dell’ “arte politica”. Oggi i margini per conflitti semplicemente locali si erodono drammaticamente – sempre più sono appunto quelli tra le grandi potenze che guardano al Weltraum, allo Spazio globale, a determinare la situazione anche all’interno di ogni territorio o Paese. Così, ad esempio, ogni azione mirante a liquidare lo Stato di Israele sarebbe necessariamente (e credo correttamente) letta come dichiarazione di guerra agli Stati Uniti.

Vale lo stesso per l’invasione russa dell’Ucraina? Si tratta cioè del caso, prima descritto, di un diretto attacco allo “spazio imperiale” occidentale-americano? Se la si intende così, la risposta non può che essere la guerra, una guerra che abbia come fine la vittoria sullo “spazio imperiale” russo. O si tratta di una contesa che ha per oggetto argomenti e interessi trattabili? Se si risponde affermativamente, corre l’obbligo di indicarne la possibile soluzione politico-diplomatica. Su questioni così tragiche non possiamo essere trascinati da contingenze elettorali (vincerà Biden? Vincerà Trump? Quanto durerà Netanyauh? ) o affidarci alla buona stella che le guerre possano protrarsi e accavallarsi le une alle altre, sempre più gravi e a distanza sempre più ravvicinata tra i soggetti egemoni, senza mai generare la Guerra.

Continuare nel male-intendersi può produrre atteggiamenti paranoici da una parte e dall’altra, i quali, a loro volta, inducono a continuare indefinitamente i massacri. La storia non insegna se non alcune regolarità: una delle fondamentali è che dal malinteso protratto può esplodere in ogni istante l’occasione, imprevedibile e incontrollabile, che dà fuoco alle polveri. Si giunge come nulla a un punto in cui qualcuno schiaccia il bottone sbagliato. Alla guerra possono andare buoni e cattivi, giusti e ingiusti, ma nella guerra in quanto tale non vince il giusto, vince il più forte, a meno che non si creda che essa rappresenta il giudizio di Dio. Buona ragione per cercare di evitarla.

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