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Perché la riforma irride la Costituzione

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Perché la riforma irride la Costituzione

Da ora in poi, le parole lasciano il posto ai voti, nelle due Camere, per due approvazioni coincidenti: e, forse con un referendum in mezzo, potremmo trovarci a dover scegliere direttamente il capo del governo. Una novità che trasforma la nostra Costituzione su un tema fondamentale, come si forma il governo: uno dei pochissimi, nell’ordinamento dove Carta scritta e pratica coincidono. Ad oggi, resiste il ruolo di regia e decisione del capo dello Stato; una figura sopportata con diffidenza, dalla rispettiva nascita, proprio da quei partiti che oggi scalpitano per l’elezione diretta. Non a caso i primi governi di centrodestra si spesero per condizionare il ruolo centrale del capo dello Stato: nella scelta del capo del governo, come nella nomina dei ministri. Così nella promulgazione. Sarà l’unico capo di governo democratico eletto con voto di popolo; eletto da chi, popolo sovrano, non ha più il diritto di scegliere i propri rappresentanti nelle Camere, che da tempo rispondono ai veri, incontrastati nuovi sovrani, capi quasi mai eletti di comunità che continuiamo a chiamare partiti.

Una della numerose irrisioni alla Costituzione, agli articoli 49 e 67. Il primo disegna partiti opposti a quelli di oggi; il secondo innalza i singoli parlamentari a rappresentanti dell’intera nazione. Niente meno. Convivono da tempo due Costituzioni: una da esposizione, da elogio pubblico, cerimoniale; e una mai scritta, conosciuta solo nei palazzi, vigente in luogo della prima. Incompatibili al punto da praticare, quella finta, la privazione di prerogative e funzioni alle Camere ufficiali, e il loro trasloco presso i governi, tutti, che ne assumono in prima persona la gestione. Tutti, compresi quelli formati con partiti che rivendicano radici ben salde nell’unica Costituzione scritta: ma che hanno essi stessi profittato nel tempo delle scorciatoie di una legislazione autogestita. Fino a cancellare, di fatto e a proprio arbitrario piacimento, il procedimento legislativo ora inutilmente scolpito nell’articolo 72 della Carta, che impone l’esame dei testi articolo per articolo, da parte di ogni Camera: e con la confezione governativa dei i famigerati maxiemendamenti, farciti di tutto, di dimensioni spettacolari, interamente sconosciuti alle Camere, salvo un voto di fiducia. Con risultato, una legislazione non rispettabile, in tutti i sensi: in sé, e per il diritto e soprattutto il dovere dei cittadini di conoscerle ed adeguarvisi. È così sospesa, si spera solamente, dalla vita istituzionale la separazione tra i poteri, in primo luogo tra Parlamento e governo. Premessa e base, indefettibile, di un ordinamento democratico. La prima su cui allunga le mani ogni aspirante autocrate. Gli esempi, anche recenti, non mancano, anzi: perfino dove sembrava si insegnasse e si esportasse democrazia. Si scorge da tempo, in molte democrazie, la nostra, lo sguardo benevolo di non pochi uomini delle istituzioni e della politica, di sinistra o di destra o di chissà dove, verso i non infrequenti scivolamenti di collaudate democrazie o la nascita di nuove possibili non democrazie pronte a diventare autocrazie.

Il vero dramma, in un sistema come il nostro, è trovarsi davanti ad un potenziale rischio di decadimento democratico, e sapere di non poter contare sulle forze della politica, che se ne servono. Anzi, il contrario: perché, diversamente, nulla sarebbe più facile e rassicurante che tornare al rispetto di norme già scritte, senza nemmeno doverne approvare di nuove. Rimuovere dagli archivi delle Camere prassi e precedenti in conflitto con la Costituzione, abbandonare cattive abitudini. Per tornare ad avere, se non la più bella Costituzione del mondo, quella che ha fatto apparire il regime fino al giorno prima imperante e tragico, un ricordo del passato, superato. Sapere di poter contare, tranquilli che all’occorrenza succederà, sui nostri organi di garanzia: quello di primo intervento, al Quirinale, già e sempre all’opera; e quello di intervento organico, la Corte Costituzionale, cui serve una sollecitazione esterna. E ricordando che ai gruppi, ai Presidenti e agli organi delle Camere, ai seicento parlamentari, rendono consulenza e collaborazione due ristrette burocrazie, specialistiche, selezionate, reputate e trattate di conseguenza. Anche e soprattutto in ossequio ad un obbligo di terzietà peculiare, il servizio tra molte parti, che in passato si poteva esaurire in un rapporto esclusivo con un vertice politico riconosciuto fisiologicamente terzo. L’imbarbarimento della dialettica politica impone oggi all’amministrazione, attraverso il segretario generale, di spostarsi da un rapporto diretto e quasi esclusivo con il presidente per divenire momento di sintesi tra le posizioni politiche. E, nel pieno rispetto della distanza tra i ruoli, collaborazione e decisione, di acquisirne l’avviso sulle questioni procedurali e costituzionali: libera la politica di ignorarlo, non di impedirlo o nasconderlo. Uno spunto, che interessa la politica prima ancora che gli uffici.

Montesquieu.tn@gmail.com

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