Nel 1453, mentre gli Ottomani stavano per dare l’assalto a Costantinopoli, i teologi bizantini rinchiusi dentro la città discutevano del “sesso degli angeli”. Storia o leggenda, la lezione resta valida. Soprattutto ora, visto che, da due anni, l’Europa è, sul versante orientale, in guerra in Ucraina. Da mesi, poi, a sud-est, il Medioriente è in fiamme. Inoltre, da alcune settimane, è tornata a farsi sentire la sirena dell’isolazionismo americano nelle parole di Donald Trump, che minaccia di abbandonare il Vecchio continente alle mire espansioniste di Putin. Così, il cerchio si restringe attorno all’Unione europea. Eppure, il dibattito politico italiano si sta polarizzando di nuovo sulla riforma delle istituzioni nazionali mentre quello di cui c’è realmente e radicalmente bisogno è una riforma delle istituzioni comunitarie. Questo, naturalmente, non significa che le conseguenze di un eventuale rafforzamento dell’esecutivo, voluto da Giorgia Meloni che fatica a concepire la democrazia come esercizio di poteri e di contropoteri, non siano un tema importante. Ma si tratta di un dibattito che non è all’altezza della questione storica.
Perché neanche la migliore riforma costituzionale a livello nazionale sarebbe in grado di mettere un futuro governo nelle condizioni di porre risposte alle sfide con cui tutti i Paesi europei debbono confrontarsi. Dalla crisi agricola (tra sussidi dell’Ue, ambizioni industriali agroalimentari, indispensabile transizione ambientale) al fenomeno migratorio, dalla riconversione di interi settori economici alla regolazione del capitalismo finanziario ma soprattutto al cambiamento della geopolitica mondiale, nessun Paese dell’Ue ha da solo la capacità critica di affrontare questi problemi. Il mondo è cambiato (ogni paese dell’Ue rappresenta meno dell’un per cento della popolazione mondiale) e se non ci si attiva in un orizzonte breve per unire e integrare maggiormente i Paesi membri, dotando l’Ue di un governo democraticamente eletto attraverso una riforma delle istituzioni, tutti paesi europei dovranno ammettere di essere quasi irrilevanti. A cominciare dalla Francia, che dispone, dal 1958, di un sistema costituzionale semi-presidenziale voluto dal Generale De Gaulle: un sistema che offre al capo dell’esecutivo stabilità e potere, e che da decenni ispira buona parte della destra italiana. Eppure, Emmanuel Macron, esattamente come i suoi omologhi europei, deve confrontarsi con l’impotenza. Sulla carta dispone di tanti poteri, compreso quello di mandare truppe militari all’estero senza chiedere per quattro mesi un voto del Parlamento.
Ma nei fatti, in quanto presidente di una nazione di grandezza medio-piccola, non dispone più degli strumenti necessari per agire.
Gli esperti militari francesi ritengono che in una guerra di alta intensità come quella in Ucraina, l’esercito di Parigi avrebbe potuto reggere solo per alcune settimane. La questione militare, come quella della diplomazia, è essenziale per capire quanto l’urgenza sia la riforma delle istituzioni comunitarie, nella direzione di una Repubblica federale europea – oppure, detto altrimenti, di Stati Uniti d’Europa.
Invocare oggi la difesa dell’Ue o una politica estera comune è solo retorica. Senza un governo europeo, non ci sarà mai un reale esercito o una diplomazia europea. Lo ricordava il mese scorso l’alto rappresentante dell’Ue per gli Affari esteri, Joseph Borrell, a proposito delle divisioni europee su Gaza all’Onu: «Alcuni chiedono un cessato il fuoco, immediato e permanente; altri votano contro, altri ancora si astengono. Pertanto, è molto difficile giocare un ruolo importante se avete posizioni così diverse». L’Unione deve riformare al più presto le sue regole, per poter prendere decisioni e pesare, se non vuole perdere centralità sullo scacchiere mondiale. Concentrarsi e concentrare il dibattito sulla riforma istituzionale nazionale significa non avere presente la posta in gioco. Al pari di un teologo bizantino.
*Corrispondente in Italia di Libération e presidente di Europa Now.