Giorgia Meloni ha un problema di propaganda elettorale e ci si è infilata da sola. Un problema che si chiama Ursula Von der Leyen. Non lo può dire e non lo dirà, ma la leader tedesca, presidente uscente della Commissione europea in cerca di un bis, candidata dei popolari europei, è diventata un peso di cui Meloni e Fratelli d’Italia farebbero volentieri a meno in questi ultimi sessanta giorni prima del voto europeo dell’8 giugno.
Sganciarsi da Von der Leyen, e dalla percezione di essere ormai la migliore amica di Ursula, è una necessità sempre più evidente, ed è stato argomento di cui si è ampiamente discusso tra i meloniani durante l’ultima tappa delle conferenze programmatiche organizzate tre giorni fa da Ecr, il gruppo dei conservatori guidati dalla premier, a Cipro.
Più ci si avvicina al voto, più la competizione a destra si fa dura e spietata. Gli equilibrismi con cui Meloni elude le domande sul sostegno a Von der Leyen nascondono la difficoltà di rimanere in bilico tra le ragioni di governo, su precisi dossier che interessano Roma, e l’ansia di difendere la propria immagine di regina della destra europea, insidiata da un signora francese che i sondaggi fanno volare sopra il pur ottimo risultato di FdI. Le frasi di Marine Le Pen, inviate via video alla convention degli ultrasovranisti organizzata da Matteo Salvini, sono state di una precisione chirurgica. La fondatrice del Rassemblement national ha colpito dove sapeva che poteva far più male, in quello che per Meloni è il tallone d’Achille della sua strategia elettorale: l’asse con Von der Leyen. Con una semplice domanda, costruita a favore del leader della Lega («cara Meloni sosterrai o no Von der Leyen? Salvini è l’unico leader italiano che non lo farà»), Le Pen ha svelato il camaleontismo della premier, l’acrobazia tra opportunismo e realpolitik. Qualche giorno dopo, a rincarare la dose ci ha pensato Jordan Bardella, numero due del partito dell’estrema destra francese, dichiarando di vedere all’orizzonte una scissione dentro Ecr, con partiti pronti a passare a Identità e democrazia, il gruppo dove a Bruxelles siedono Salvini e Le Pen assieme ai tedeschi di AfD e che potrebbe, con nuovi innesti, ambire a diventare il terzo più grande in Europa, dopo Popolari e socialisti, e prima dei liberali di Renew Europe (con alla testa Emmanuel Macron) e dei conservatori.
FdI non ha potuto far altro che controbattere, vantando a sua volta il possibile ingresso di altri partiti, e l’obiettivo dichiarato di portare i seggi dei conservatori a 15-20 in più rispetto agli attuali. Meloni continuerà a dire quello che ha sempre detto, che i giochi per le nomine dei vertici europei si faranno dopo il voto, quando si conosceranno i numeri. Sa bene, però, che è qui e ora che si combatte per un seggio in più. E lo si fa cercando di misurare gli ingredienti tra l’iconoclastia sovranista e il pragmatismo di un capo di governo che per anni ha messo nel mirino l’Europa, e ora dell’aiuto di quell’Europa non può più fare a meno su tanti temi, dai migranti al Pnrr. Ma un conto è se a stanare l’ambiguità della leader ci pensa Salvini, che soffre di un crollo di consenso in casa, un altro è se le accuse hanno l’eco internazionale che portano con sé le parole di Le Pen. Meloni è furibonda, anche perché, a inizio anno, aveva dato un’apertura di credito importante alla francese. Ma è pure consapevole del fatto che la candidatura di Von der Leyen si sta velocemente indebolendo, rischiando di imprigionarla.
I colonnelli di Meloni in Europa vedono la tedesca ormai spacciata. Von der Leyen ci proverà fino alla fine e già circola l’ipotesi che voglia anticipare il più possibile le decisioni che il Consiglio europeo – l’organo che riunisce i 27 capi di Stato e di governo – dovrà prendere sui vertici e le singole poltrone della Commissione, e che l’Europarlamento sarà chiamato a ratificare. FdI deve ragionare su un piano B. E lo sta facendo, considerando i punti fermi previsti nel processo che porterà alla nomina dei presidenti di Commissione, Consiglio e Parlamento europeo. La premessa è nota a tutti: salvo sorprese, la maggioranza non dovrebbe essere dissimile da quella – formata da popolari, socialisti, liberali – che ha sostenuto Ursula. Non ci sono regole scritte, ma consuetudine. Ed è difficile immaginare una candidatura alla guida della Commissione che vada di traverso a un Paese importante, grande e popoloso come l’Italia. Si dà per scontato che, dietro Von der Leyen, ci sarà un altro popolare a correre per la presidenza. Ma chi? I nomi che tornano e ritornano sono un po’gli stessi. Nella short list senza troppe sorprese ci sono Andrej Plenković, premier croato, con cui Meloni ha un buon rapporto, e Roberta Metsola, presidente (popolare) dell’Europarlamento dopo la morte di David Sassoli (che fu scelto in quota socialista), sostenuta dal segretario di Forza Italia Antonio Tajani e dal capogruppo del Ppe Manfred Weber. Ma tra i candidati ci potrebbe essere anche Tajani stesso. È un nome che FdI non esclude, anche se il vicepremier nega di aver tutta questa voglia di tornare in Europa. Di sicuro, per Meloni avrebbe il vantaggio di guardare con occhio più favorevole agli interessi del governo italiano, e significherebbe strappare una nomina di maggior peso di quella di un commissario seppur importante come l’Agricoltura, l’Economia o altri a cui punta la destra. A condizione però che non ci sia un altro italiano, a rimescolare ogni cosa: quel Mario Draghi, che Macron vorrebbe piazzare al Consiglio, e che potrebbe rovinare i piani di Meloni.